La DISCO MUSIC ha lasciato un solco profondo nella storia della musica contemporanea, sia per “qualità” che per “quantità”(oltre settemila titoli nell’arco di un decennio). In verità, all’inizio degli anni ’70 accadde qualcosa che ha modificato in maniera irreversibile il modo di intendere a fruire i “prodotti musicali destinati alle piste da ballo”. Il nuovo stile, infatti non era solo un ballo o uno specifico genere di musica, ma diventò ben presto un variegato microcosmo legato ad un preciso modo d’interpretare la vita ed il consumo di tempo libero , di vestirsi, di atteggiarsi; soprattutto, per la prima volta questa nuova liturgia del movimento si consumava con collettiva ritualità in dei veri e propri templi della danza e del divertimento denominati “discoteche”, ma ancor prima in dei “loft”, improvvisati locali da ballo ante-litteram , ricavati da appartamenti o scantinati e frequentati in massima parte da neri , ispanici, omosessuali ed italo-americani. Si potrebbe affermare che eclettici artefici di Rhytm & blues dal sangue troppo bollente e jazzisti dalla fantasia creativa assai elastica combinarono l’affare del secolo. Furono subito in molti i produttori pronti a scommettere sul “genere”, così i primi microsolchi dalla ritmica evidente e con giri di basso marcati conquistarono le classifiche, ma soprattutto avvinsero il cuore e le gambe di milioni di giovani . Il “prodotto” aveva in sé qualcosa di dannato e di divino al contempo: un lampo di pura genialità , una forza ammaliante, un’innocente evasione ed una lasciva tentazione sempre in perfetto equilibrio. La novella Musa delle piste da ballo si offriva a gli adepti centrifugandone le emozioni in una sorta di delicata pietanza spalmabile sulle orecchie, quasi un’indigestione di zucchero filato in un fiabesco e variopinto paese dei balocchi. La disco procedendo con levità a differenza di altri media di intrattenimento, mostrava una naturale inclinazione ad unire persone di differente colore, razza, ideologia, religione, preferenze sessuali e situazione economica in un dialogo ecumenico fatto di musica e ballo in grado di eludere le tante limitazioni imposte dai pregiudizi della vita quotidiana. Una rivoluzione pacifica all’insegna dell’insostenibile leggerezza dell’essere. Sul versante pop-rock, degli anni ’60 avevano concluso il loro ciclo con una serie di avvenimenti negativi a catena : lo scioglimento dei Beatles, la morte di Janis Japlin, Jimi Hendrix e jim Morrison, ma soprattutto la consapevolezza che il tempo della grande illusione, ossia cambiare il mondo con le canzoni, fosse finito. Il cadavere eccellente del vecchio rock pesava sul nuovo decennio come un macigno, mentre la “disco”, procedendo a pie ’ leggero al pari delle divinità olimpioniche, si fece largo tra i giovani e non solo. A partire dei primi anni ’70, i riflettori cominciarono ad accendersi su altri soggetti: le minoranze(soprattutto nere) in fase di emancipazione e i giovani della “working class”. Quando i gay(ma anche i neri, gli Ispanici, gli italo-americani, le donne) individuarono la via per uscire dal ghetto, si ritrovarono quasi per incanto in un mondo di edonismo, musica, lustrini e luci pulsanti, catapultati dal buio della povertà e dalla precarietà della vita in strada su un palco illuminato da mille luci, un gigantesco parco giochi dove tutto sembrava possibile: in primis il riscatto sociale. La disco, a parte l’importanza musicale, nacque e si sviluppò per sostenere un nuovo settore economico: nell’America afflitta della crisi petrolifera e lacerata dal Vietnam servivano investimenti ed un clima di ottimismo (non si sono venduti mai più tanti dischi, quanto nel periodo dominato dalla disco music). In questo quadro si inserirono i vari mutamenti sociali legati all’evoluzione della cultura musicale dei neri, alla modernizzazione del soul, al nuovo ruolo delle minoranze, alla liberazione sessuale, ai mutamenti dell’uso del tempo libero e alle moderne esigenze del ceto medio. Sino alla fine degli anni ’60, il fenomeno “clubbig”, era stato un’altra faccenda, essendo riservato solo al jet set e alle presunte celebrità. In America come in Europa le serate nei locali notturni si esprimevano attraverso una connotazione glamour, inamidata e esclusiva al solo fine di alimentare il lavoro dei paparazzi, a placare le vogliosità di cacciatori di gossip e di autografi ed a riempire l’immaginario popolare con le facce di gente con tanti capelli e poca testa o con un cervello a basso contenuto di neuroni: pletore di dive usa e getta sempre in saldo e narcisisti alla fiera delle vanità. La disco, almeno nella sua prima fase di sviluppo, si lega a taluni mutamenti che investirono in pieno gli Afro-americani. Pur non determinando o influenzando i vari fenomeni sociali ed economici, che portarono a un generale miglioramento delle condizioni di vita della gente di colore, ne seppe amplificare i significati, facendo da cassa di risonanza a quel cambiamento che sembrava dare i suoi frutti migliore soprattutto in campo musicale: prima dell’avvento della “disco”, non vi erano mai stati in giro per le classifiche o negli scaffali dei negozi di dischi tanti “artisti neri condivisi”, ossia accettati e ballati col medesimo trasporto emotivo sia dai bianchi che dai neri. Quella musica apparentemente frivola,  leggiadra, nonché foriera di una sorta di “trionfo dell’ottimismo nero”, ben si adattava ad un piacevole clima di ascesa verso la vetta della scala sociale. La disco divenne presto un paradigma estetico, un modello sostenibile anche dalla civiltà dei consumi voluttuari di massa, mentre la componente più “sotterranea”, finì presto con l’assopirsi asservendosi alle spietate leggi di mercato. Anche il rock nelle sue molteplici eccezioni, aveva seguito il medesimo copione. Così al disco music, in particolare per la forte incidenza in termini mercantili, riuscì a condizionare un’epoca. Ovviamente si ballava anche prima, ma dagli anni ’70 in poi si balla ininterrottamente alla stessa maniera, ossia in 4/4: cambiano solo i suoni e le tecnologie. Dopo il 1977, da fenomeno d’élite la disco si trasformò in forma immediata e facilmente fruibile di musica popolare, aprendo una seconda fase della vita di un “soggetto vincente”, che da oltre cinque anni stava inducendo ed imponendo sostanziali mutamenti al mercato della musica giovanile di consumo. In particolare la rapida affermazione dell’Eurodisco, lo “sbiancamento” dei moduli espressivi e l’eccessivo uso di elettronica e di ritmiche ossessive condussero presto ad un iperproduzione ripetitiva e alla banalizzazione del fenomeno stesso. La disco music per certi versi rimane un lontano universo ingiustamente sottovalutato, forse perché misconosciuto nella sua componente “sociale”, “razziale” ed “underground”. Il fatto di continuare a identificarla solo con il “travoltismo e la “Saturday Night Fever” o con i saltelloni dei Village People, significa perseverare in un madornale errore di valutazione storica.

Tratto dall'omonimo libro :

Disco Music di  Francesco C. Verrina